Un pomeriggio ero seduta al computer con mio marito a cercare di capire come adattare i grandi Esperimenti sull’Intenzione che
avevo realizzato, per proporli nei corsi che avremmo tenuto a breve negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Era l’anno che seguiva il lancio dei miei grandi Esperimenti sull’Intenzione globali, in cui invitavo lettori sparsi per il mondo a
inviare pensieri verso un obiettivo ben controllato, posizionato nel laboratorio di uno degli scienziati che avevano accettato di collaborare con me. All’epoca ne avevamo condotti quattro, inviando intenzioni a obiettivi semplici, come semi e piante, e ottenendo risultati davvero incoraggianti.
Ora cercavo di portare questi effetti a una dimensione individuale, adatta alle persone e al corso di un weekend, ma non ne avevo
tenuti molti prima e, all’epoca, sapevo quello che non volevo: fare finta di aiutare le persone a manifestare miracoli, come promettevano molti corsi simili. Ero anche preoccupata dei limiti fisiologici della struttura di un seminario. Magari il potere di trasformazione dei pensieri era visibile solo nell’arco temporale di settimane, mesi o persino anni.
Come avremmo dimostrato qualche cambiamento significativo tra venerdì e domenica pomeriggio?
Cominciai ad annotare i nostri pensieri su una slide di PowerPoint: scrissi “Focalizzati”. Avevo intervistato parecchi esperti nell’uso del pensiero, monaci buddisti, maestri di Qi Gong e di guarigione, e tutti mi avevano spiegato che entravano in uno stato mentale di alta energia e concentrazione.
“Concentrati” disse Bryan. Forse l’intenzione di massa amplificava questo potere. Sembrava fosse proprio così.
Focalizzati.
Concentrati.
Tutti gli Esperimenti sull’Intenzione globali che stavo pianificando erano finalizzati a sanare qualcosa sul Pianeta, quindi era logico che nei seminari di un weekend continuassi a concentrarmi sulla guarigione. Decidemmo che il corso avrebbe promosso la guarigione di qualcosa nella vita dei partecipanti.
Poi scrissi: “In gruppo”.
Un piccolo gruppo.
“Cerchiamo di dividere i partecipanti in gruppetti di circa otto persone e chiediamo loro di inviare un pensiero di guarigione collettiva a un altro componente del gruppo con una malattia” suggerii a Bryan.
Forse, così facendo, potevamo scoprire se l’intenzione di un gruppo ristretto aveva la stessa potenza di quella dei gruppi più
grandi.
Dov’era il discrimine in termini di numero? Avevamo bisogno di una massa critica pari al numero di persone coinvolte in alcuni dei nostri esperimenti più estesi oppure sarebbe stato sufficiente un gruppo di otto?
Non ci ricordiamo chi di noi ebbe l’idea (probabilmente fu Bryan, che ha un talento naturale per i titoli), ma battezzammo i gruppi “Il Potere dell’8” e, quando arrivammo a Chicago, avevamo elaborato il progetto.
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